“Dove va l’industria italiana?” A questa domanda risponde l’ultima ricerca del Centro studi di Confindustria. La ricerca, presentata il 14 maggio, evidenzia che “la manifattura mondiale sta uscendo da una lunga fase di sviluppo, avvenuta nel segno della globalizzazione. Il tramonto di questa fase, che aveva visto affermarsi a livello mondiale una visione multilaterale degli scambi internazionali e una progressiva liberalizzazione dei mercati, apre un orizzonte nuovo, e pone le economie industriali (antiche e recenti) di fronte a percorsi inediti”.
Un’ennesima svola, che pone il nostro Paese “di fronte a un contesto fortemente mutato, in cui il sostegno garantito fin qui dalla domanda internazionale rischia di ridimensionarsi, riproponendo la questione irrisolta di un mercato interno strutturalmente debole. Spicca in questo quadro la persistente debolezza della domanda di investimento, fortemente penalizzata dal crollo della componente pubblica dedicata alle infrastrutture. Ma la stessa componente privata – pure sostenuta dalle politiche di incentivazione alla trasformazione della manifattura in chiave 4.0 – risente a sua volta del clima di crescente incertezza, sia sul piano economico che su quello politico”.
Lo studio si focalizza su dieci messaggi chiave che, proprio partendo dal cambiamento in atto e dalla riaffermazione del regionalismo, impone la necessità di rilanciare la domanda interna, anche se l’Italia continua a rinnovare i settori e i paesi di destinazione dei suoi prodotti. Un risultato favorito anche dall’aver investito sulla qualità, che permette di operare con maggiori margini e rende più difficile l’ingresso dei concorrenti.
Perderemo altri posti di lavoro
Queste situazioni hanno, ovviamente, un impatto diretto sul mondo produttivo. Il rapporto evidenzia così che “la manifattura italiana impiega oggi quasi 4 milioni di persone (650mila in meno di quelle che impiegava nel 2007). Il ridimensionamento subito negli anni di crisi – riflesso inevitabile di quello dell’attività produttiva – appare ormai strutturale, anche per effetto di una ricomposizione dell’occupazione verso i servizi che caratterizza fisiologicamente la fase più avanzata dello sviluppo dei paesi industriali: tra il 2007 e il 2013 le ore lavorate nella manifattura erano diminuite del 21,1%; ma tra il 2013 e il 2018 il recupero è stato del 3,3%.
Nel panorama del mercato del lavoro italiano la manifattura è caratterizzata da una forza lavoro impiegata per orari più lunghi e con contratti più stabili della media, con una incidenza dell’occupazione femminile modesta (dovuta alla prevalenza di lavoro manuale e di mansioni pesanti). In questo quadro deve essere comunque segnalato che la composizione dell’occupazione si è evoluta: negli ultimi dieci anni è evidente nei dati un fenomeno di polarizzazione, con un aumento del peso relativo sia delle professioni caratterizzate da un alto livello di competenze sia di quelle elementari, e una contestuale riduzione della quota delle professioni intermedie. Nella prospettiva dei cambiamenti tecnologici che verranno, e che amplificheranno la questione della “qualità” del fattore lavoro, è a questa altezza che il problema dell’occupazione diverrà probabilmente più acuto”.
Dieci miliardi dal Piano Industria 4.0
Le valutazioni occupazionali non possono ovviamente prescindere dal processo di digitalizzazione della manifattura, che “offre importanti benefici potenziali alle imprese: arricchisce l’offerta industriale di nuovi servizi “intelligenti”, migliora l’efficienza tecnica ed energetica dei processi industriali, aumenta la flessibilità produttiva.
Le tecnologie 4.0 servono a prendere decisioni più rapide e precise, a permettere nuove forme di interazione uomo-macchina, a interconnettere l’intera catena del valore interna all’impresa e, potenzialmente, l’intera catena di fornitura. Ma l’Europa – che pure ha dedicato esplicita attenzione al tema – rischia di perdere la sfida globale contro Asia e Nord-America, in particolare per quanto riguarda la leadership nell’offerta di tecnologie abilitanti per la trasformazione digitale dell’industria, e soprattutto nel caso delle capacità brevettuali legate alle ICT. La trasformazione digitale delle imprese richiede un supporto multi-livello della politica industriale, che favorisca gli investimenti in tecnologie, un più stretto legame tra il mondo della ricerca e l’industria, la formazione e l’aggiornamento continuo delle competenze”.
A condizionare il mercato è anche il Piano Industria 4.0, che, si stima, “abbia riguardato 10 miliardi di investimenti. Si tratta di una misura importante, che è stata utilizzata prevalentemente dall’industria manifatturiera (sia per numero di imprese coinvolte che per quota degli investimenti attivati). All’interno della manifattura il settore in cui l’investimento è stato maggiore è quello dei prodotti in metallo (26% del totale degli investimenti iper-ammortizzati), seguito dalla meccanica strumentale”.